Attacco alla democrazia e neocretinismo
«Questi disgraziati poveri di spirito per tutto il corso delle loro esistenze generalmente molto oscure […] dal principio della loro carriera legislativa erano stati più di qualsiasi altra frazione dell’Assemblea contaminati dalla incurabile malattia del cretinismo parlamentare, infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l’onore di annoverarli tra i suoi membri e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio […] non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all’importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l’attenzione dell’onorevole loro assemblea».
Nel luglio del 1852, Friedrich Engels scriveva a proposito dei deputati della sinistra nell’Assemblea legislativa.
In tempi di riduzione del numero dei parlamentari è ampiamente prevedibile l’accanimento alla corsa al seggio parlamentare da parte di vecchi e nuovi parlamentari, vecchi e nuovi politicanti dediti alla coltivazione delle proprie clientele per poter conservare la propria peculiare e sottile forma di parassitismo sociale.
L’ottuso populismo grillino, oggi in declino, ha sancito la fine del residuo di democrazia esistente nel nostro Paese con l’affermazione del sì al recente referendum costituzionale confermativo della riforma che riduce il numero di parlamentari e senatori a partire dalla prossima legislatura. In soldoni, le piccole formazioni politiche, ammesso che riuscissero a superare le soglie di sbarramento previste per entrare in Parlamento, saranno diffusamente assenti sul territorio nazionale in quanto a rappresentanza parlamentare in tutte le regioni di piccole e medie dimensioni, al contrario verrà favorito e consolidato praticamente senza concorrenza tutto il notabilato locale che già controlla sul territorio, con le buone e con le cattive, consistenti pacchetti di voti.
In questo modo è facile che venga fuori un parlamento ancor più addomesticato con l’esaurimento praticamente di ogni velleità di esercizio della sovranità democratica e popolare e il trasferimento direttamente all’esecutivo di tutte le decisioni che contano sulle grandi questioni nazionali.
Il Movimento 5 Stelle consapevolmente o meno si è fatto veicolo del rafforzamento dell’esecutivo che è però a sua volta, come spesso ribadito anche in questa rivista, sempre più un’appendice dei diktat della Commissione Europea, della Banca centrale, del Fondo Monetario Internazionale nonché della Nato oggi più che mai sugli scudi. Il Movimento 5 Stelle, fondamentalmente, ha puntellato un sistema che già anni addietro era auspicato dalla loggia P2 di Licio Gelli e in tempi più recenti era stato più volte caldeggiato dal gruppo Bilderberg, un gruppo internazionale paramassonico che tanto ha influito sull’attuale logica e assetto che caratterizza la stessa Unione Europea con la sua moneta unica. Oggi più che mai constatiamo che il mondo è nuovamente in guerra, la crisi sistemica a cui è giunto il modo di produzione capitalista non sembra avere altra via d’uscita se non quella di una immane distruzione di capitale variabile e capitale costante.
Sappiamo che il capitalismo distruggendo può dare vita ad un nuovo ciclo di accumulazione, per cui il ricorso alla guerra resta sempre una soluzione non solo utile ma talvolta anche necessaria, possiamo inoltre talvolta stabilire una sorta di analogia, come giustamente afferma il sociologo Emilio Quadrelli, tra forma Stato e forma guerra e quindi il conseguente rapporto tra masse subalterne e il potere politico. Nell’attuale fase dell’imperialismo globale a caratterizzare l’imperialismo occidentale è il costante processo di esclusione e marginalizzazione politica e sociale delle classi subalterne, le quali non sembrano più rivestire alcun interesse strategico per le mire degli Stati occidentali imperialisti.
Come afferma sempre Emilio Quadrelli nel suo libro dal titolo Sulla Guerra”, contrariamente a quanto accaduto nel passato, le classi dominanti non sono per nulla interessate a porre a regime un modello economico e sociale finalizzato a catturare il consenso delle masse subalterne ma, al contrario, a condurre una battaglia nei confronti delle loro condizioni di vita ed esistenza. Sotto questo aspetto è quanto mai indicativa la partecipazione elettorale in Italia dove l’astensionismo si aggira oramai stabilmente attorno al 40% e dove alle ultime elezioni politiche nel restante 55% un terzo ha votato per il Movimento 5 Stelle allora presentatosi come partito anti-sistema per poi passare a più miti consigli divenendo stampella del governo dei banchieri. Si è passati probabilmente e definitivamente da una relazione tra le classi improntata ad un principio di simmetria ad una dove a privilegiare è un rapporto di tipo asimmetrico con un modello economico e sociale che, a differenza del passato, presuppone non l’integrazione, pur sempre da subalterni, bensì l’esclusione dei salariati e in generale di tutte le classi popolari. Di qui possiamo sinteticamente spiegare la crisi di rappresentanza politica e sociale dei salariati, in quanto frutto della modifica strutturale intervenuta nel modo di produzione capitalista nel XXI secolo. Sappiamo che gli scenari di guerra possono tanto portare a svolte autoritarie quanto sbloccare imprevedibilmente azioni di rottura radicale contro la classe egemone, tuttavia non vuol essere questo il tema dell’articolo, quanto quello di affermare la totale inutilità storica di fase dell’esercizio del voto come pratica oramai svuotata di senso e che tutt’al più può servire a sempre più ristrette cerchie di popolazione per continuare a conservare quella misera quota di privilegio che ancora gli viene concessa.
È evidente che la classe subalterna di oggi è degradata a sottoproletariato nei modi di ragionare oltre che nel rischio di finirci sul serio nel sottoproletariato e guarda, inoltre, quali modelli edificanti le condizioni di vita della piccola borghesia che è a sua volta in via di progressiva estinzione; come è evidente dall’altro lato che una delle cause della cosiddetta post-democrazia come la denomina Colin Crouch risiede anche nel restringimento costante dell’area del ceto medio. Pensiamo che questi processi siano reversibili? Pensiamo che possano esserlo mandando al governo attraverso le elezioni un vero partito rivoluzionario? Oppure pensiamo, peggio ancora, di poter raggiungere una percentuale elettorale tale da poter “condizionare le scelte di governo” in direzione delle classi sociali subalterne? Davvero siamo fermi a questa colossale presa in giro? E come la mettiamo, stando tra l’altro ai modesti mezzi di cui dispone oggi una ipotetica area politica di opposizione antisistema (ammesso che abbia un’omogeneità politico-culturale da poter stare insieme a lungo), con tutta la questione posta qualche anno fa da Alessandro Pascale nel suo libro “Il totalitarismo liberale” che ci mette di fronte alla decisiva questione della influenza della “sovrastruttura” sulle masse popolari?
Cosa ne sappiamo davvero sulla mutazione antropologica che sta determinando l’uso delle nuove tecnologie? Chi ha professato l’astensionismo programmatico nel ’900, almeno fino al crollo del muro di Berlino, probabilmente si sbagliava proprio in virtù del fatto che l’arma elettorale era sempre un mezzo anche se non l’unico per vincolare le scelte dei dominanti e in tal senso non si può negare proprio il ruolo avuto dal PCI in virtù del suo peso elettorale.
Oggi le cose stanno diversamente, basti solo pensare alla vertiginosa involuzione delle rappresentanze sindacali, da quando le stesse erano continuamente sollecitate dalle agitazioni operaie che nei momenti migliori intesero darsi anche forme organizzative più avanzate come i consigli di fabbrica ad oggi dove come suol dirsi “terminati i margini di riformismo” le stesse organizzazioni sindacali registrano la piena e definitiva integrazione nel sistema del capitalismo finanziario globalizzato. Valga per tutti quanto ha scritto Giorgio Cremaschi nel suo Lavoratori come farfalle dove si offre un quadro veritiero del presente, del perché della crisi e della gestione antipopolare e antidemocratica di essa, delineando nel contempo la storia cruda e molto amara della sconfitta del lavoro, una sconfitta che viene dopo una stagione di lotte quale mai in precedenza, neppure dopo il biennio rosso 1919-1920 e l’occupazione delle fabbriche, si era verificata in Italia. In un tempo brevissimo che possiamo collocare tra la linea dell’EUR (il cui vero inizio è l’intervista di Repubblica del 24 gennaio 1978 a Luciano Lama, intervista intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”) e “la marcia dei quarantamila” (capi e capetti) del 4 ottobre 1980, il movimento operaio che fino a quel momento era stato all’offensiva, si ritrova a dover ripiegare incalzato dal padronato, dando avvio a una ritirata i cui esiti negativi sembrano lontano dall’essersi conclusi.
Sbagliato sarebbe ovviamente immaginare che nel secolo scorso si fossero vissute sempre le “magnifiche sorti e progressive del proletariato”, anzi, almeno dal 1943 il “collaborazionismo” di classe, al di là dei contrasti nelle scelte politiche quotidiane, alimentate più dal reazionarismo democristiano (e imposizioni USA), costituiva l’asse portante delle scelte del PCI il quale per anni, fino almeno a qualche anno dopo il fatidico ’68, è stato in gran parte condizionato (più che averla ispirata), dalla spinta allo scontro da parte delle masse, che rispondevano all’iniziativa reazionaria del padronato. Se questa vocazione moderata non uscì mai allo scoperto prima (negli anni Cinquanta) era per la presenza delle aspirazioni comuniste che esistevano in gran parte della base (e della stessa struttura del partito) e per l’inevitabilità di una situazione internazionale (Guerra Fredda) che non gli lasciava altra strada, per non essere distrutto, che condurre un’opposizione radicale. Il maccartismo, dunque, non solo servì a polverizzare l’opposizione di classe negli Stati Uniti d’America, ma anche a coprire l’involuzione dei partiti comunisti nel mondo (a partire da quello italiano e quello francese).
Ma la vocazione moderata del PCI c’era ed era rilevabile anche solo constatando che ancora negli anni ’70 le tesi economiche di neokeynesiani come Federico Caffè superavano a sinistra il partito di Enrico Berlinguer. Oggi, allora, la questione diviene ad un tempo politica e sindacale e quindi da affrontare innovativamente non a compartimenti stagni ma comprendendo che la crisi della rappresentanza sindacale è soprattutto un fatto politico e ideologico oltre che la risultante dei processi di ristrutturazione capitalistica e anche per questo abbiamo assistito alla ultradecennale scarsa rilevanza delle piccole formazioni sindacali conflittuali che negli anni sono nate senza mai poi rappresentare una reale alternativa ai sindacati confederali. Non vuole essere quella dell’astensionismo elettorale una posizione estremistica e ideologica che non tenga conto della fase, al contrario proprio perché va ricostruito il movimento comunista internazionale e quindi anche italiano, date le caratteristiche storiche dell’attuale modo di produzione capitalistico sommariamente descritte, quella delle elezioni è l’ultimo dei problemi da affrontare, anzi le elezioni rischiano di essere la ragione ultima in nome della quale si sacrifica la già difficile costruzione del partito in omaggio a quello che anche Lenin (che, com’è noto ai più, non era affatto un “antiparlamentarista”) definiva come cretinismo parlamentare di coloro che pensavano di conquistare «la simpatia della maggioranza dei lavoratori» attraverso elezioni svolte «sotto il giogo della borghesia, sotto il giogo della schiavitù salariata». Ma diversi anni prima Karl Marx, questa volta a proposito dei deputati dell’Assemblea nazionale francese, si esprimeva nei medesimi termini: «Essi erano … tenuti a muoversi strettamente nei limiti del parlamento. E dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il Continente, il cretinismo parlamentare, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore». Sorge legittimo il dubbio ai giorni nostri che i micro-partiti comunisti in Italia ancora rimasti e del tutto residuali, coltivino i propri orticelli senza alcuna vera ambizione di aprirsi per tendere a dimensioni di massa proprio perché sono diventati partiti di tipo essenzialmente di natura elettoralistica, che non credono più al socialismo, pensati come sono essenzialmente per piazzare qualche deputato superando le fatidiche soglie di sbarramento ed esaurendo essenzialmente in ciò la loro ragione di esistere. Le avanguardie che debbono costruire un partito rivoluzionario che in quanto tale non si attesti percentualmente a poco più che ai numeri decimali, e quindi che sia davvero proiettato alle masse popolari, non possono pensare seriamente che oggi presentarsi alle elezioni possa servire in qualche modo alla causa delle classi subalterne, diversamente se lo pensano (magari senza uno straccio di dibattito e partecipazione interna), più che avanguardie sono piccoli bottegai aspiranti all’ingresso nel dorato mondo del ceto politico italiano.