Francesco Galofaro ha un dottorato di ricerca in semiotica. È docente all’Università di Torino e all’ISIA Roma. Tra i suoi temi di ricerca, l’approccio quantistico al Natural Language Processing e la semiotica delle religioni. Dal 1997 al 2017 la sua attività politica si svolge in Rifondazione comunista. Dopo l’esito negativo del tentativo di unificare i comunisti noto come “Ricostruiamo il PCI”, che aveva contribuito a promuovere, lascia i suoi incarichi e la politica attiva. Nello stesso periodo entra nell’associazione Marx21, scrivendo per il sito e la rivista, dove si occupa tuttora di social media mining, della lotta per la supremazia quantistica e delle ricadute geopolitiche del conflitto nel cyberspazio. Nel 2019 è invitato al X forum mondiale socialista organizzato dall’Accademia Cinese delle Scienze Sociali; nel 2021 partecipa al III congresso mondiale di marxismo. 

Come prima questione, ti chiediamo una diagnosi sui cyberconflitti in atto nel mondo. 

Lasciate prima che vi ringrazi per il vostro cortese invito e per la questione che mi ponete. Mentre i cittadini di tutto il mondo devono affrontare la tragica esperienza della pandemia, non pare che gli Stati abbiano appreso la dura lezione che ci infligge la natura: invece di cooperare, stanno combattendo una guerriglia segreta, condotta nel cyberspazio, che è una parte importante di quella ‘terza guerra mondiale a pezzi’ su cui ci ha messo in guardia Papa Francesco. 

Non ti sembra che l’espressione ‘guerriglia segreta’ sia esagerata, e un po’ complottista?

Le accuse di ‘complottismo’ sono inevitabili: durante la guerra, il potere di definire la verità è proprio una delle poste in gioco. Comunque, è una guerriglia perché gli attacchi prendono di mira le infrastrutture: nel caso dell’attacco noto come Colonial pipeline, avvenuto in maggio, gli aggressori hanno paralizzato per due settimane la distribuzione di carburante negli Stati Uniti sud-orientali e hanno costretto gli americani a pagare un riscatto miliardario.

Chi c’è dietro? 

In quel caso si trattava di DarkSide, un gruppo che non attacca direttamente le proprie vittime, ma fornisce gli strumenti per creare un attacco su misura ai propri affiliati, in cambio di una parte del bottino. Ha perfino una sorta di etica: non attacca ospedali, scuole o organizzazioni governative. Il loro software è sensibile alla lingua del bersaglio e non attacca Paesi appartenenti all’ex-Unione sovietica o all’area linguistica siriana. Il che fornisce una scusa perfetta per incolpare la Russia di Putin. Ovviamente, si tratta soltanto di illazioni da parte di chi ha tutto l’interesse a costruire la Russia come ‘il nemico’.

Ma i giornalisti sono sempre unanimi nell’accusare Russia, Cina, Corea del Nord.

In realtà tutti i dati indicano che il Paese da cui partono la maggior parte degli attacchi informatici sono proprio gli USA. La Russia è al dodicesimo posto e la Corea del Nord non è neanche in classifica. Al contrario, La Russia è il Paese più colpito, seguito da Brasile e Cina. Nella classifica delle vittime, gli Stati Uniti sono solo al quarto posto, ma i media danno spazio solo ai loro guai.

La solita piaggeria dei giornalisti verso il potere?

Forse si tratta solo di questo. Ma quando si prepara una guerra ai cittadini si raccontano solo le atrocità perpetrate dal nemico e si tacciono quelle dell’alleato. 

Ti sembra realistico che una guerra reale possa scoppiare nel cyberspazio? 

Dal 2016 i Paesi NATO hanno deciso che un attacco nel cyberspazio può innescare il meccanismo di autodifesa previsto dall’articolo 5 del trattato. Insieme all’orbita terrestre, il cyberspazio è uno dei due nuovi luoghi dove gli Stati nazionali cercano di esercitare la propria sovranità – il controllo del territorio e l’esercizio della giurisdizione. A questo proposito ho coniato l’espressione ‘sovranità algoritmica’.

Di che si tratta?

La difesa della sovranità con internet comporta nuove sfide. In primo luogo, il cyberspazio azzera le distanze geografiche. È come se ogni Stato avesse accesso a un ‘mare’, col rischio di ritrovarsi, da un giorno all’altro, le cybercannoniere del nemico a bloccare i propri porti. In secondo luogo, il cyberspazio permette la guerra asimmetrica. Il debole può mettere in ginocchio il forte, perché la costruzione di cyberarmi non richiede tecnologie avanzate. Così Hamas ha ricostruito la linea e i movimenti del fronte israeliano con l’operazione Arid Viper, infiltrandosi nei cellulari dei soldati nemici promettendo loro pornografia e accesso gratis alle partite di calcio. Lo stesso Israele non è certo un’economia sviluppata, eppure esporta in tutto il mondo cyberarmi come Pegasus, che permette a governi ‘democratici’ di spiare in massa i propri cittadini. Infine, nuove preoccupanti forme di sovranità si sviluppano in rete.

Ti riferisci ai social media?

Precisamente: Facebook e Twitter possiedono server in tutto il mondo, controllano l’accesso e l’informazione al proprio interno operando censure inaccettabili in democrazia, esercitano una propria giurisdizione sospendendo o espellendo i propri utenti, e battono perfino moneta, in forma di criptovaluta. In questo modo, possono emettere prestiti sottraendosi ai rigidi criteri cui sottostanno le banche, e prima o poi saranno la causa di una nuova bolla speculativa. In questo scenario, è improbabile che un singolo Stato abbia la forza di spegnerli o di imporre loro una qualsiasi forma di controllo. Nemmeno gli USA.

Non starai per caso rispolverando vecchie teorie No Global sull’indipendenza delle multinazionali dall’interesse degli Stati?

Chiaramente no. Le multinazionali ITC sono soltanto le protesi dei propri governi. Questo è l’errore di Toni Negri: opponeva le multinazionali a un modo di pensare i governi che non aveva già più corso alla fine del ‘900; al contrario, le forme di governo contemporanee vanno viste come altrettanti cyborg, attraversati da impianti tecnologici e sistemi di controllo. Altrimenti, perché Twitter censurerebbe i comunicati delle ambasciate cinesi e iraniane? Google è un simbionte del ministero della Difesa americano, non solo perché gli fornisce l’intelligenza artificiale per pilotare i droni, ma anche perché una parte importante dei suoi dirigenti è ormai costituita da ex-ufficiali di alto livello. 

Fantascienza?

È più come un film in costume: dal punto di vista della ‘sovranità algoritmica’, le multinazionali hi-tech ricoprono il ruolo che fu delle vecchie compagnie europee delle Indie, cui sono garantiti extraprofitti in regime di monopolio perché servono come strumento di colonizzazione. 

E cosa colonizzano?

Il cyberspazio, cioè lo spazio della cultura altrui. Ma, nel concreto, queste compagnie hanno basi per nulla virtuali in tutti i continenti.

Nella tua riflessione sulla sovranità algoritmica, che ruolo ha il marxismo?

C’è ancora molta ricerca da fare per giungere a una dottrina marxista soddisfacente e integrata delle relazioni internazionali e conosco studiosi in gamba che ci si dedicano. Personalmente, trovo molto utili le riflessioni di alcuni autori recenti: Domenico Losurdo, Samir Amin, Cheng Enfu. Permettono al lettore di abbandonare stereotipi etnocentrici, e di leggere la storia del Novecento come un alternarsi di spinte coloniali e contro-coloniali, che danno vita a cicli politici dal periodo molto ampio. È una chiave per interpretare anche conflitti nel cyberspazio.

Il marxismo ci porta all’ultima domanda. Mi piacerebbe chiederti quali sono a tuo avviso i punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva comunista in Italia.

Negli anni tra il 2006 e il 2019, dalla partecipazione al secondo governo Prodi all’esperienza dell’Altra Europa, i comunisti e la sinistra radicale in senso lato si sono a più riprese giocati la propria credibilità, alimentando illusioni di cambiamento e oscillando in realtà tra l’incapacità di mutare le condizioni di vita dei loro referenti sociali e la complicità col potere. Per riconquistare una credibilità, si dovrebbe lavorare a molte questioni diverse. 

Vuoi indicare un tema che ti sembra particolarmente importante?

Poiché viviamo in un’epoca di moltiplicazione dei terreni di conflitto e delle occasioni di guerra, i comunisti devono essere una forza di pace. Durante la partecipazione al secondo governo Prodi, Rifondazione ha votato a favore del rifinanziamento delle missioni in Afghanistan e dell’invio di truppe in Libano. Le scelte sciagurate di Fausto Bertinotti e della sua banda di ipocriti rotti al compromesso – che all’epoca non si perdevano una marcia della pace – hanno fatto più danni della caduta del muro di Berlino, cancellando la credibilità dei comunisti nel loro insieme. Dal punto di vista dell’elettore, i comunisti oggi si dividono in due categorie: i gesuiti, che sono lassisti in fatto di principi, e i giansenisti, eticamente rigorosi ma ininfluenti. Io credo che, sul tema della pace, il contesto sempre più allarmante spinga a scelte rigorose. 

Come si fa a giudicare chi ha ragione e chi torto, in un clima di propaganda sempre più unilaterale?

In primo luogo, occorre evitare di saltar subito alle conclusioni, ma informarsi e cercare la verità, che è spesso celata dai media sotto il velo dell’ignoranza. In secondo luogo, bisogna evitare la posizione, qualunquista e manichea, che assimila tutte le parti in conflitto, perché aiuta solo chi è più forte. Occorre ricordare ogni volta che in un conflitto aggressori e aggrediti non sono sullo stesso piano, come non sono sullo stesso piano gli USA e la NATO, da un lato, Russia, Cina e America latina, dall’altro. Insomma, bisogna imparare l’arte del discernimento. 

“Speciale”

L’essenza, per le fondamenta

Interviste sul Comunismo

Progetto politico-editoriale di Fosco Giannini e Alessandro Testa

Interviste a cura di Alessandro Testa

Quadro internazionale e pericoli di guerra; imperialismo/antimperialismo dopo la caduta dell’URSS; crisi del movimento comunista in Italia; percorsi per l’unità dei comunisti e delle comuniste. “Cumpanis” interroga i dirigenti, gli intellettuali, gli economisti, i filosofi comunisti, marxisti italiani per contribuire a una prima “accumulazione intellettuale originaria” da investire per il grande compito che la fase oggettivamente richiede: ricostruire un partito comunista nel nostro Paese all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe, un partito di quadri con una linea di massa. 

“Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica”. Lenin, 1902, Che fare. 

La prima parte di questa affermazione di Lenin è tanto nota da essere divenuta una sorta di litania tra i militanti comunisti: litania, certo, ma mai “prassi teoretica” da parte dei gruppi dirigenti comunisti italiani successivi alla lunga “cronaca annunciata” del suicidio del PCI. 

Mai questa litania si è concretizzata nell’impegno a sciogliere i grumi teorici che la storia del dissolvimento e depauperamento del movimento comunista italiano – che tra il lungo processo di socialdemocratizzazione del PCI e questi ultimi, “nostri”, tre decenni è giunta al mezzo secolo di azione attiva nefasta – è andata moltiplicando. 

Di fronte ai compiti che poneva la crisi del movimento comunista italiano, invece di districare i nodi attraverso una dialettica del contenuto di verità e realtà, le esperienze comuniste successive al PCI hanno scelto la strada, paradossale, della costruzione di “cattedrali” ideologiche fondate, di volta, in volta, o sulla sabbia del movimentismo totale, o su quella dell’istituzionalismo totale, o su quella della nostalgia totale, la nostalgia acritica del vecchio PCI, oggettivamente funzionale, peraltro, a rimuovere la stessa, temporalmente lunga, “mutazione genetica” del PCI. 

Invece di far di nuovo brillare, nei nostri giorni, il rosso del pensiero materialista e rivoluzionario, si ridipingeva di grigio il grigio, così come Hegel affermava.

Nessun scioglimento di nodi, in quest’ultimo trentennio: solo polvere sotto il tappeto. Da questa mancanza di lavoro teorico, di “scavo” propedeutico all’allestimento delle fondamenta, possiamo agevolmente, quanto razionalmente, far dipendere in larga parte il fallimento dei tentativi di ricostruzione di un forte, radicato, coeso partito comunista successivo all’autosciogimento del PCI.

Peraltro, la seconda parte dell’affermazione di Lenin, che succede all’esigenza della teoria rivoluzionaria, (“Non si insisterà mai troppo su questo concetto, in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica”) molto meno “recitata” della prima ma ugualmente densa sul piano ideologico, proprio in virtù di questa densità andrebbe utilizzata come griglia di lettura in relazione alle “forme più anguste di azione pratica” messe in campo dai sempre incompiuti, e a volte persino stravaganti, partiti comunisti apparsi in Italia dopo il XX° e ultimo Congresso del PCI, con le loro fumisterie teoriche e il loro abbandono dei territori e dei luoghi del conflitto capitale/lavoro.

“Cumpanis” fa parte di quel “fronte”, che si va fortunatamente allargando, che crede nella necessità sociale, politica, persino storica di un’attiva e pesante presenza partitica comunista in Italia, e crede che per giungere a tale obiettivo occorra unire i comunisti e le comuniste italiane – sia quelli che militano negli attuali partiti comunisti italiani che quelli al fuori di essi – sulla base di un profilo politico e teorico alto, adatto ai tempi, non dogmatico né liquidazionista rispetto al grande patrimonio ideologico, teorico e politico dell’intera storia del movimento comunista e operaio italiano e internazionale; un profilo che esca da una vasta e collettiva ricerca tra comunisti e si offra ad essi come base ideologica omogenea e comune.

Per questo obiettivo di fondo, con le sue modeste forze, è nata “Cumpanis”; per questo obiettivo, in questo “Speciale”, la rivista coinvolge, in una vasta e preziosa discussione, i dirigenti e gli intellettuali comunisti e marxisti italiani.

Hanno già aderito alla nostra iniziativa e risponderanno alle nostre domande: Maurizio Acerbo, segretario nazionale del PRC; Mauro Alboresi, segretario nazionale del PCI; Marco Rizzo, segretario nazionale del PC. E, tra dirigenti e intellettuali: Fulvio Bellini, ricercatore politico; Nunzia Augeri, saggista; Ascanio Bernardeschi, studioso di questioni economiche, esponente del giornale comunista on-line “La Città Futura”; Renato Caputo, docente di filosofia, esponente de “La Città Futura”; Bruno Casati, saggista e presidente del Centro Culturale “Concetto Marchesi” di Milano; Marcello Concialdi, docente di filosofia, Torino; Manlio Dinucci, saggista e geografo; Salvatore Distefano, docente e storico del movimento operaio; Ferdinando Dubla, docente e storico del movimento operaio; Carla Filosa, docente, saggista, già redattrice de “La Contraddizione”; Federico Fioranelli, docente di economia e diritto; Demostenes Floros, economista e docente di geopolitica; Carlo Formenti, saggista; Gianni Fresu, saggista, studioso di Gramsci e docente all’Università di Cagliari; Francesco Galofaro, Unversità di Torino; Wladimiro Giacché, economista e saggista; Rolando Giai-Levra, direttore di “Gramsci Oggi”; Aldo Giannuli, storico del movimento operaio; Alberto Lombardo, docente Università di Palermo e membro dell’Ufficio Politico del PC; Alfredo Novarini, già dirigente del PCI e del movimento operaio milanese, dirigente del Centro Culturale “Concetto Marchesi” di Milano; Alessandro Pascale, storico del movimento operaio; Fabio Pasquinelli, avvocato, Centro culturale “Cumpanis”; Marco Pondrelli, saggista e direttore di Marx 21.it; Giorgio Riolo, saggista, traduttore, tra l’altro, delle opere di Samir Amin in Italia; Francesco Schettino, economista, saggista, ricercatore Università di Napoli e Roma; Alberto Sgalla, docente di diritto e scrittore; Silvano Tagliagambe, filosofo; Daniela Talarico, avvocato, Torino; Salvatore Tiné, docente Università di Catania e storico del movimento operaio; Tiziano Tussi, docente e storico del movimento operaio; Alessandro Volponi, docente di filosofia e studioso di economia e storia dell’economia; Chiara Zoccarato, studiosa di questioni economiche. 

Le interviste saranno pubblicate in ordine di arrivo.